Il Mereghetti - Dizionario dei film (Baldini&Castoldi)
"(...) La migliore e più divertente parodia dei classici dell'orrore, prende in giro con ironia,
leggerezza e un po' di simpatica volgarità i luoghi comuni del brivido. Indimenticabili i giochi
linguistici ("lupo ulu-là, castello ulu-lì"), la gobba di Igor che si sposta da destra a sinistra,
il terrore che la domestica, Frau Blucher, sa trasmettere agli animali col suo solo nome (...)"
Guido Di Falco – Dizionario del cinema americano
"(...) Mel Brooks si rivela uno strano perfezionista nel momento in cui sta per mettere alla berlina
la veneranda storia della "Creatura". Incarica i suoi scenografi di usare per il laboratorio dello
scienziato le attrezzature che Kenneth Stickfaden aveva fabbricato per "Frankenstein" (1931) di James
Whale. Fedeltà all’originale, in un certo senso: che è il modo più corretto per fare satira. Anche
da questo nasce il sapore – gradevole, asprigno, del "Young Frankenstein" che espone un serafico Gene
Wilder, dall’occhio azzurro ma dallo sguardo malizioso, accanto a un formidabile Igor, l’aiutante
gobbo (con occhi a palla e gobba mobile) impersonato da Marty Feldman e a una "Creatura" massiccia e
imponente, interpretata con gusto da Peter Boyle. Gli altri sono contorno, scelto bene e pilotato
abilmente sui sentieri della parodia, che vede il professor Frederick scimmiottare maldestramente
l’antenato ma occuparsi con molta convinzione di affari di sesso, imitato da una fidanzata che lo
raggiunge in Transilvania per provare piaceri proibiti. M. Giusti Ha rintracciato pazientemente,
personaggio per personaggio, i modelli nelle vecchie versioni cinematografiche, indicando accanto a
ciascuno i nomi dei "progenitori". Il meno debitore ad antecedenti è Igor, che naturalmente si inserisce
nella lunga fila dei gobbi (si possono citare almeno Lon Chaney jr. e Bela Lugosi) ma si afferma come un
personaggio originale e autonomo, "una delle costruzioni comiche più belle degli ultimi anni". Sciolta,
veloce, sapida nell’orchestrare gli effetti, attenta al gioco degli scambi comici fra personaggi, non
scevra di appoggiature volgarotte, la regia di Brooks appare particolarmente efficace. Sarà premiata,
insieme agli spiritosi attori, da un ottimo successo."
Virgilio Cinema
"Mel Brooks, specialista in parodie, raggiunge qui il suo risultato più riuscito, con momenti di
assoluto mimetismo dell'atmosfera d'epoca e con una raffinatezza di riferimenti. Alcuni momenti
sono assolutamente esilaranti, il ritmo è irresistibile, gli attori perfetti (su tutti un Marty
Feldman al meglio di sé nei panni del servitore gobbo Igor)."
Segnalazioni Cinematografiche, vol. 79, 1975
"Questo film è una gustosa satira sia dei film dell'orrore - incentrati sul personaggio creato
dall'ottocentesca Mary Shelley - sia nelle svenevolezze sentimentali del cinema degli anni Trenta,
nonché di altre numerose debolezze dell'uomo e della società d'oggi. La suggestiva messa in scena
(che si avvale persino degli impianti usati un tempo per il primo film del genere e, inoltre, di
tutto il linguaggio del film muto), l'eccellente scelta degli interpreti (allegramente e
adeguatamente impegnati nelle rispettive dissacrazioni), la qualità e l'intelligenza delle
zampillanti trovate, collocano l'opera di Brooks nel clima di revisione hollywoodiana, affettuosa
e ironica al tempo stesso."
Giovanni Grazzini (Il Corriere della Sera, 27 aprile 1975)
"Fra catastrofi e nostalgie, il cinema americano continua a comunicare il sentimento di irrealtà
che domina il mondo oltreatlantico: tutto va male, nascondiamoci nella paura e nel rimpianto. E se
riesce, ridiamoci su. Parte di qui il ghiribizzo di Gene Wilder e Mel Brooks, che basandosi
sull’antico romanzo di Mary Shelley capostipite d’una lunga famiglia di Frankenstein cinematografici
vogliono divertirsi a prendere in giro l’orgoglio della scienza, i costumi di casa e i patiti delle cineteche.
In America l’impresa è riuscita: il loro film spopola. E in Francia c’è chi parla di capolavoro, rotolandosi
nel gaudio. Noi siamo più coriacei:un sorriso ci basta.
La parodia parte bene. Un nipote del famoso barone, professore di anatomia in America, si è sempre vergognato
del nonno, che pretendeva d’avere scoperto la chiave dell’immortalità: ha persino corretto il suo nome.
Ma anche lui è un mattoide, e l’idea di ripetere gli esperimenti dell’avo lo elettrizza, In una Transilvania da
operetta, tra i fumi della notte e i temporali, e con l’aiuto d’un gobbo malefico e d’una lunatica governante
(ma c’è anche una vezzosa biondina), l’opera si compie: il nostro trapianta nel cadavere d’un impiccato un
cervello sottospirito, e l’uomo, un gigante di due metri, torna a vivere. Però si dà il caso che per un errore
del gobbo il cervello appartenesse, anziché a un «santo scienziato», a un idiota, che ora terrorizza il
villaggio insorto contro il professore. Ammansito dal suono del violino, l’energumeno viene presentato
all’Accademia delle scienze, a cui si esibisce in un numero di tip-tap, ma non sentendosi abbastanza amato dà
in escandescenze, e quando sopraggiunge in visita la casta fidanzata di Frankenstein la rapisce e spulzella.
Per ristabilire l’ordine occorre un altro audace trapianto, che dia al mostro un po’ dell’intelligenza di
Frankenstein, e a questi un sovrappiù di virilità. L’uno se ne varrà per diventare un potente uomo di affari,
l’altro per mandare in visibilio la sua biondina.
Le ghiottonerie del filmetto sono nell’ironia della messinscena, che fa il verso al cinema d’orrore di radice
gotica e ai ridicoli sentimentalismi, in qualche gag e nel buffonesco degli attori. Girato in un sano bianco e
nero, Frankenstein junior chiede di essere apprezzato anche perché certe scene ricalcano luoghi famosi di film
degli anni Trenta, e perché le apparecchiature elettriche del diabolico laboratorio sono le stesse, proprio le
stesse, che apparvero nel 1931 nel film di James Whale. È sembrato un colpo di fortuna ritrovarle, gelosamente
custodite dal vegliardo che le inventò, come è sembrata una disdetta non poter utilizzare per il mostro la
maschera e i grugniti di Boris Karloff. Chi sia insensibile ai narcisismi con cui il cinema tenta di celebrare
la sua mitologia, godrà dei momenti spassosi forniti dai personaggi bislacchi (il più ameno è il gobbo) e dei
tentativi compiuti dal doppiaggio italiano per accrescere l’assurdo. Ma non si aspetti molto più d’una farsa
maliziosa: l’operazione compiuta da Bogdanovich con Paper Moon è riuscita molto meglio di questa di Mel Bnooks,
che da tempo punzecchia il mondo dello spettacolo(Per favore non toccate le vecchiette), ma con spilli di
punta rotonda. Portato alle stelle dagli americani di bocca buona, Mel Brooks è ancora in cerca, dopo cinque
film, d’una forma di umorismo che lo distacchi dai buontemponi e lo carichi di vetriolo.
Gli attori stanno al gioco, a cominciare da Gene Wilder, un Frankenstein che sposa Pierrot a Pampurio, con
effetti moderatamente esilaranti. Il mostro è un Peter Boyle ben membruto, ma né pauroso né ridicolo
(ci dà il meglio nella scena del tip-tap); Madeleine Kahn, la fidanzata, azzecca la satira di certe donne
americane, e Teri Garr introduce una dose di piccante. Gene Hackman ha soltanto la particina di fianco d’un
eremita sbrodolone. Sicché il più simpatico resta Marty Feldman, che con la sua gibbosità girevole, la
falcata scaltra e l’occhio strabuzzante vince il palio dei buffi."
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